A Pogradetz l’inverno arriva di colpo. Non manda nessun
segnale di preavviso. Sei ancora intento a sguazzare nelle fresche acque del
lago, quando si fanno avanti, tra le cime delle montagne della Macedonia
pesanti nuvole nere gonfie d’acqua; puntuale come la morte si scatena il primo
temporale di agosto. Ti vengono scaricate addosso tonnellate di grandine, i cui
chicchi grossi come uova, gelano in pochi istanti l’aria e ti fanno capire che
le vacanze sono veramente finite. Il freddo e la desolazione che accompagnano
la città per quasi nove mesi l’anno, ricominciano a farla da padroni. La gente
si chiude nella case e i turisti cominciano a fare le valigie.
Pogradetz è una città che vive quattro mesi l’anno,
a cominciare dagli inizi di giugno, quando la tarda primavera inizia a
trasformarsi in estate e la città, scotendosi dal torpore invernale, come
alimentata da nuova linfa vitale, si rianima. I camerieri dei locali ubicati
nei viali lungo il lago dispongono i tavolini all’aperto, mentre gli
altoparlanti diffondono gracchianti melodie balcaniche. Negli stabilimenti
balneari compaiono, alla stregua di variopinti fiori stagionali, le file degli
ombrelloni. Il giardino del ristorante 1° Maji[1] si riempie di cespugli di rose multicolori,
così belle e curate da fare la gioia di ogni pittore esperto di vedute e
paesaggi. Già agli inizi di giugno, nei
fine settimana, arrivano i primi villeggianti, in genere qualche tironësë[2] che alle caotiche
spiagge di Durazzo preferisce la tranquillità del soggiorno lacustre, in quelle
economiche pensioncine con uso cucina, a gestione familiare, dotate di
balconcini con vista panoramica. Sì, a partire da giugno la città, come uscita
dal sonno comatoso del letargo invernale, si sveglia, si stiracchia e riprende
fiato, diventa piacevole, quasi divertente.
I prati che costeggiano i vialetti lungo il lago iniziano
a riempirsi di capannelli di anziani che giocano a domino; i giovanotti si
abbeverano di birra e discutono animatamente seduti nei rumorosi bar pieni di
fumo di sigaretta; in questi locali per soli uomini, dove alle donne albanesi,
per motivi di decenza e di moralità, è sconsigliato entrare, per non essere
additate dalla città intera come “poco-di-buono”.
I mercatini
del centro si riempiono di gente che parla ad alta voce mentre frotte di
bambini giocano in riva al lago, vicino agli zingari nomadi che in estate
preferiscono accamparsi negli spazi in prossimità delle acque di quello che per
i macedoni rappresenta il loro sacro mare, mentre per gli albanesi è uno
specchio d’acqua come un altro, magari solo un po’ più grande e profondo.
File di madri con i bambini in costume da bagno,
nelle ore più calde del giorno si muovono verso la periferia della città, nelle
spiagge dove è possibile fare il bagno, cioè quelle in cui le acque non hanno
ancora incontrato la città con i suoi scarichi incontrollati e fetidi. Anni di
anarchia ambientalista hanno reso una parte considerevole di questo gioiello
naturale che è il lago di Ohrid, quella più in prossimità delle abitazioni, una
specie di fogna a cielo aperto. Il disprezzo per ogni vincolo paesaggistico, sia durante il regno di Enver Hoxha, il
“Faraone di Provincia”, sia nel boom edificatorio del decennio democratico, ha
fatto si che, sulle rive albanesi, fossero vomitate colate di cemento armato
fin dove era possibile farlo, violando - con scarichi industriali e domestici,
nonché con il discutibile uso di fare del lago una pubblica e gratuita
tintoria, dove si lavano tappeti, coperte, automobili e altro - l’eterea
bellezza delle sue coste.
Guardando il lago, si ha come l’impressione di
assistere al triste declino di un valoroso e forte combattente che dopo una
giovinezza gloriosa e indomita, ha dovuto cedere di fronte ad una subdola ed
insidiosa malattia: un putrido cancro che, preso d’assalto il suo corpo forte e
vitale, lo sta conducendo lentamente ed inesorabilmente verso la sua fine.
Strombazzanti e colorate carovane di auto, per lo
più vecchie Mercedes, varcano la strada principale della città per accompagnare
i matrimoni, eventi davvero importanti da queste parti, con in testa l’auto del
cine-operatore che riprende passo passo l’avvenimento, a seguire l’auto degli
sposi, lei agghindata e truccata come fosse la protagonista di un fotoromanzo
italiano degli anni ’50, lui che sfoggia l’abito scuro d’ordinanza, di un
ottimo taglio, secondo i dettami
dell’eleganza balcanica e, via via, tutte le auto della miriade di
invitati, tra genitori, fratelli, zii e cugini, di ogni ordine e grado, la cui
notevole estensione caratterizza le straripanti famiglie albanesi; la rarità di
avvenimenti mondani fa del matrimonio una ghiotta occasione di socializzazione
per i provinciali di queste parti. A Pogradetz i mesi caldi dell’anno sono il
periodo più indicato per sposarsi, per cui se vivi qui devi mettere nel conto
almeno quattro matrimoni tra i tuoi familiari nel corso dei mesi estivi, con
tutto quel che significa: spesa per il regalo degli sposi, automobile da lavare
(vista la polvere e il fango che c’è da queste parti, non è un particolare
irrilevante), il vestito bello da aggiustare (le abitudini alimentari non
garantiscono il mantenimento della stessa taglia da una stagione all’altra),
estenuanti pomeriggi danzanti, grandi mangiate e, soprattutto, grandi bevute di
rakji[3] che, anche se l’abitudine
ad assumerlo fin da giovanissimi come fosse una bibita ha allenato gli albanesi
a sopportarne le conseguenze, sono comunque dei colpi considerevoli ai già
provati sistemi epatici; ai più fortunati
può capitare di partecipare ad una festa di matrimonio dove la famiglia
dello sposo ha affittato uno dei ristorantini della laguna di Tushemisht,
allora lì veramente ci si gode la vita: normalmente è difficile per le
sofferenti tasche albanesi permettersi una mangiata di Koran[4] al
ristorante, cucinato secondo tradizione, ed è ancora più difficile farlo a
Tushemisht. Questa località, a due passi dalla frontiera con la Macedonia, è
conosciuta in tutta l’Albania, al punto che, se dici a chiunque: “Devo andare a
Pogradetz”, ti viene subito risposto: “Fermati a mangiare a Tushemisht, è shumë
mirë[5]!”. A Tushemisht ci
si arriva imboccando una stradina che costeggia il lago, a partire dal lato
meridionale di Pogradetz; si attraversa il viale alberato, che porta alla
vecchia villa sul lago dove, nei ruggenti anni della sua gloriosa epopea, Enver
Hoxha, il Faraone di Provincia, assieme alla regina, ai principini e al codazzo
dei dignitari di corte, nei mesi estivi veniva a godersi il fresco e la
tranquillità abbandonando l’afa di Tirana, le lotte di potere e gli intrighi
politici della capitale; si percorrono un paio di chilometri e poco prima del
centro abitato omonimo, a poche centinaia di metri dalla frontiera macedone, in
un tratto dove il lago diventa laguna, ci si ritrova di fronte a una serie di
specchi d’acqua trasparenti, con il classico corredo di cigni, anatre e rane,
in mezzo ad una fresca vegetazione; sulle rive di questi specchi di acqua vi
sono degli incantevoli vialetti, collegati tra loro mediante dei ponticelli di
legno, in modo tale da permetterti di fare delle piacevoli passeggiate al
riparo dal caldo. In mezzo a questo paradiso ci sono due o tre ristoranti che
cucinano in modo divino (un po’ pesante per chi non è abituato ai sapori
balcanici) succulente pietanze a base di carne o pesce koran.
Questa esplosione di vita però, termina puntuale
all’approssimarsi della metà di agosto, quando il freddo e la pioggia
ricominciano a farla da padroni e riportano la città nel consueto stato
letargico tipico della spopolata provincia albanese.
[1] I° Maggio.
[2] Cioè: tiranese, abitante
di Tirana.
[3] Forte liquore albanese
simile alla grappa.
[4] Rara varietà di trota
salmonata, molto gustosa, che vive solo nel lago di Ohrid e nel lago Bajkal.
[5] Molto bello, bellissimo.
Nessun commento:
Posta un commento