martedì 28 aprile 2015

Pogradetz, Albania


A Pogradetz l’inverno arriva di colpo. Non manda nessun segnale di preavviso. Sei ancora intento a sguazzare nelle fresche acque del lago, quando si fanno avanti, tra le cime delle montagne della Macedonia pesanti nuvole nere gonfie d’acqua; puntuale come la morte si scatena il primo temporale di agosto. Ti vengono scaricate addosso tonnellate di grandine, i cui chicchi grossi come uova, gelano in pochi istanti l’aria e ti fanno capire che le vacanze sono veramente finite. Il freddo e la desolazione che accompagnano la città per quasi nove mesi l’anno, ricominciano a farla da padroni. La gente si chiude nella case e i turisti cominciano a fare le valigie.
Pogradetz è una città che vive quattro mesi l’anno, a cominciare dagli inizi di giugno, quando la tarda primavera inizia a trasformarsi in estate e la città, scotendosi dal torpore invernale, come alimentata da nuova linfa vitale, si rianima. I camerieri dei locali ubicati nei viali lungo il lago dispongono i tavolini all’aperto, mentre gli altoparlanti diffondono gracchianti melodie balcaniche. Negli stabilimenti balneari compaiono, alla stregua di variopinti fiori stagionali, le file degli ombrelloni. Il giardino del ristorante 1° Maji[1]  si riempie di cespugli di rose multicolori, così belle e curate da fare la gioia di ogni pittore esperto di vedute e paesaggi.  Già agli inizi di giugno, nei fine settimana, arrivano i primi villeggianti, in genere qualche tironësë[2] che alle caotiche spiagge di Durazzo preferisce la tranquillità del soggiorno lacustre, in quelle economiche pensioncine con uso cucina, a gestione familiare, dotate di balconcini con vista panoramica. Sì, a partire da giugno la città, come uscita dal sonno comatoso del letargo invernale, si sveglia, si stiracchia e riprende fiato, diventa piacevole, quasi divertente.
I prati che costeggiano i vialetti lungo il lago iniziano a riempirsi di capannelli di anziani che giocano a domino; i giovanotti si abbeverano di birra e discutono animatamente seduti nei rumorosi bar pieni di fumo di sigaretta; in questi locali per soli uomini, dove alle donne albanesi, per motivi di decenza e di moralità, è sconsigliato entrare, per non essere additate dalla città intera come “poco-di-buono”.
I mercatini del centro si riempiono di gente che parla ad alta voce mentre frotte di bambini giocano in riva al lago, vicino agli zingari nomadi che in estate preferiscono accamparsi negli spazi in prossimità delle acque di quello che per i macedoni rappresenta il loro sacro mare, mentre per gli albanesi è uno specchio d’acqua come un altro, magari solo un po’ più grande e profondo.
File di madri con i bambini in costume da bagno, nelle ore più calde del giorno si muovono verso la periferia della città, nelle spiagge dove è possibile fare il bagno, cioè quelle in cui le acque non hanno ancora incontrato la città con i suoi scarichi incontrollati e fetidi. Anni di anarchia ambientalista hanno reso una parte considerevole di questo gioiello naturale che è il lago di Ohrid, quella più in prossimità delle abitazioni, una specie di fogna a cielo aperto. Il disprezzo per ogni vincolo paesaggistico,  sia durante il regno di Enver Hoxha, il “Faraone di Provincia”, sia nel boom edificatorio del decennio democratico, ha fatto si che, sulle rive albanesi, fossero vomitate colate di cemento armato fin dove era possibile farlo, violando - con scarichi industriali e domestici, nonché con il discutibile uso di fare del lago una pubblica e gratuita tintoria, dove si lavano tappeti, coperte, automobili e altro - l’eterea bellezza delle sue coste.
Guardando il lago, si ha come l’impressione di assistere al triste declino di un valoroso e forte combattente che dopo una giovinezza gloriosa e indomita, ha dovuto cedere di fronte ad una subdola ed insidiosa malattia: un putrido cancro che, preso d’assalto il suo corpo forte e vitale, lo sta conducendo lentamente ed inesorabilmente verso la sua fine.
Strombazzanti e colorate carovane di auto, per lo più vecchie Mercedes, varcano la strada principale della città per accompagnare i matrimoni, eventi davvero importanti da queste parti, con in testa l’auto del cine-operatore che riprende passo passo l’avvenimento, a seguire l’auto degli sposi, lei agghindata e truccata come fosse la protagonista di un fotoromanzo italiano degli anni ’50, lui che sfoggia l’abito scuro d’ordinanza, di un ottimo taglio, secondo i dettami  dell’eleganza balcanica e, via via, tutte le auto della miriade di invitati, tra genitori, fratelli, zii e cugini, di ogni ordine e grado, la cui notevole estensione caratterizza le straripanti famiglie albanesi; la rarità di avvenimenti mondani fa del matrimonio una ghiotta occasione di socializzazione per i provinciali di queste parti. A Pogradetz i mesi caldi dell’anno sono il periodo più indicato per sposarsi, per cui se vivi qui devi mettere nel conto almeno quattro matrimoni tra i tuoi familiari nel corso dei mesi estivi, con tutto quel che significa: spesa per il regalo degli sposi, automobile da lavare (vista la polvere e il fango che c’è da queste parti, non è un particolare irrilevante), il vestito bello da aggiustare (le abitudini alimentari non garantiscono il mantenimento della stessa taglia da una stagione all’altra), estenuanti pomeriggi danzanti, grandi mangiate e, soprattutto, grandi bevute di rakji[3] che, anche se l’abitudine ad assumerlo fin da giovanissimi come fosse una bibita ha allenato gli albanesi a sopportarne le conseguenze, sono comunque dei colpi considerevoli ai già provati sistemi epatici; ai più fortunati  può capitare di partecipare ad una festa di matrimonio dove la famiglia dello sposo ha affittato uno dei ristorantini della laguna di Tushemisht, allora lì veramente ci si gode la vita: normalmente è difficile per le sofferenti tasche albanesi permettersi una mangiata di Koran[4] al ristorante, cucinato secondo tradizione, ed è ancora più difficile farlo a Tushemisht. Questa località, a due passi dalla frontiera con la Macedonia, è conosciuta in tutta l’Albania, al punto che, se dici a chiunque: “Devo andare a Pogradetz”, ti viene subito risposto: “Fermati a mangiare a Tushemisht, è shumë mirë[5]!”. A Tushemisht ci si arriva imboccando una stradina che costeggia il lago, a partire dal lato meridionale di Pogradetz; si attraversa il viale alberato, che porta alla vecchia villa sul lago dove, nei ruggenti anni della sua gloriosa epopea, Enver Hoxha, il Faraone di Provincia, assieme alla regina, ai principini e al codazzo dei dignitari di corte, nei mesi estivi veniva a godersi il fresco e la tranquillità abbandonando l’afa di Tirana, le lotte di potere e gli intrighi politici della capitale; si percorrono un paio di chilometri e poco prima del centro abitato omonimo, a poche centinaia di metri dalla frontiera macedone, in un tratto dove il lago diventa laguna, ci si ritrova di fronte a una serie di specchi d’acqua trasparenti, con il classico corredo di cigni, anatre e rane, in mezzo ad una fresca vegetazione; sulle rive di questi specchi di acqua vi sono degli incantevoli vialetti, collegati tra loro mediante dei ponticelli di legno, in modo tale da permetterti di fare delle piacevoli passeggiate al riparo dal caldo. In mezzo a questo paradiso ci sono due o tre ristoranti che cucinano in modo divino (un po’ pesante per chi non è abituato ai sapori balcanici) succulente pietanze a base di carne o pesce koran.
Questa esplosione di vita però, termina puntuale all’approssimarsi della metà di agosto, quando il freddo e la pioggia ricominciano a farla da padroni e riportano la città nel consueto stato letargico tipico della spopolata provincia albanese.


[1] I° Maggio.
[2] Cioè: tiranese, abitante di Tirana.
[3] Forte liquore albanese simile alla grappa.
[4] Rara varietà di trota salmonata, molto gustosa, che vive solo nel lago di Ohrid e nel lago Bajkal.
[5] Molto bello, bellissimo.

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